A ruota libera.

simo.txt
14 min readMay 5, 2021

Storia di una ragazza sprint.

Mi muovo piano nel buio di casa. Giro attorno al letto delle mie sorelle, seguo con le dita la tenda ruvida e spessa che separa la camera in due. Da una parte noi, dall’altra i miei genitori: papà russa forte. Arrivo a tentoni alla porta. La maledetta, nell’aprirsi, fa un cigolio e nel silenzio dell’alba deflagra come la bomba sminata per caso, l’altro giorno, nell’orto e fatta scoppiare in sicurezza nei campi.

Ora viene il bello: m’infilo nella camera dei miei fratelli che dormono con l’uscio spalancato per non asfissiare, nella notte, con i loro stessi miasmi. Nonostante quest’accortezza, appena entrata mi accoglie un odore forte di stalla, peti e alito pesante. Qualcuno ha lasciato le scarpe piene di letame in camera, saranno urla stamattina. Dei tre, Bepi è quello con il sonno più leggero; alle volte mi chiedo se dorma con gli occhi aperti o chiusi, manco se in questa casa ci fosse qualcosa di valore o da rubare. “Solo troppe bocche da sfamare” la mamma lo ripete ogni sera, a tavola, quando spazzoliamo via il cibo come se fosse l’unico pasto della giornata.

Questa volta scelgo di fare un movimento rapido e risoluto, ieri ho impiegato troppo tempo nel tentativo di sfilarli con dolcezza. Bepi si è seduto di scatto nel letto e io mi sono accucciata giù, sul pavimento gelato, con il cuore impazzito. Avanzo a quattro zampe e afferro l’orlo dei calzoni, tirando con decisione, senza paura che la cintura s’impigli o faccia rumore, tanto lo so che è sui pantaloni belli, quelli del sabato e della domenica. In settimana un cordino di spago per tenere su le braghe da lavoro è più che sufficiente. In apnea, tiro decisa e cadono a terra. Cerco di captare qualche segno di risveglio, Bepi emette uno strano grugnito quasi di soddisfazione, chissà se sta sognando. Forse d’aver vinto la volata contro quel damerino di Comba, con la sua Legnano nuova di zecca.

Esco a carponi e m’infilo, svelta, in cucina. Taglio una fetta di pane nero di segale, verso sopra il miele e, masticando, esco, con i pantaloni sulle spalle per non sporcarli e per avere un po’ di calore sulla schiena. Il freddo e il buio delle quattro e mezza di mattina mi avvolgono in un abbraccio noto. Attraverso veloce il cortile, rabbrividendo, la mia camicia da notte sembra un tulle sottile, un velo da sposa. Ma è la temperatura che preferisco, perfetta per fare il giro che ho in mente. Tanta salita subito e la discesa solo quando il sole sarà già sorto: meglio un po’ di fresco. Sarà dura quest’estate mettersi i pantaloni lunghi, del resto con la gonna è impensabile: ci penserò quando arriverà il caldo vero, quello che ti fa sudare anche di notte, pure se stai immobile nel letto, con le zanzare che danzano sulla testa come avvoltoi a caccia di sangue. A me pungono poco, ho il sangue amaro, io. Per ora vediamo di rispettare la tabella degli allenamenti da qui a giugno. Me la sono fatta da sola, scrivendo per una settimana cosa fa Bepi e cercando di copiare.

Entro nel capanno degli attrezzi, odore familiare di segatura, olio e ferro: eccola lì, sfavillante anche al buio. Accendo la luce e perdo qualche secondo di troppo nel contemplarla.

Blu, slanciata, elegante. Due strisce di pelle azzurra che degradano in bianco arrotolate attorno alle manopole, come candidi mezzi guanti. Ruote grandi, con pneumatici sottili, richiamano le rotondità del manubrio. Il sellino è bianco, in tinta con il porta borraccia. Le leve del cambio, come lunghi orecchini, spiccano lucenti sul tubo obliquo: non è una bicicletta, ma una Gran Dama agghindata per la premiere del cinematografo. E con ben quattro rapporti, freni oliati e precisi ed un telaio a diamante sottile e leggero, la Gran Dama, su strada, si trasforma in un aquilone pronto a volare.

Bepi se l’è comprata un mese fa, con i risparmi di un anno, aiutato da mamma e papà, incoraggiati dai buoni risultati che sta ottenendo con la “Veloce — Tre Risotti”. Avrei voluto contribuire anche io, con tutti i miei soldi, ma quando l’ho proposto in gran segreto a mio fratello, mi ha guardato come se avessi la febbre alta con le allucinazioni. Quando è arrivata si è ricordato della mia offerta e mi ha minacciato di botte se solo avessi avuto il coraggio di sfiorarla. L’ha fatta provare a tutti i maschi della casa, ma non a me. Anzi, mentre li osservavo con invidia, mi ha intimato di andare a cucinare e di non perdere tempo, che quelle erano faccende da uomini. Ma io lo so perché Bepi fa così: gli brucia ancora quando, l’anno scorso, l’ho battuto nel giro della Rocca di Cremonte. Quel pomeriggio ci stavamo annoiando tutti quanti e quando Gigi, per fare il galante, mi ha proposto “Perché non ci provi anche tu?” non me lo sono fatta ripetere due volte. Il fatto è che in salita spingo e riesco a contenere il distacco, ma è in discesa, in discesa che faccio la differenza. Perché non ho paura e lascio andare. La testa si svuota, divento un tutt’uno con le ruote, vedo solo più asfalto e bosco, traiettorie e allegria. E Bepi non mi ha mai perdonato di aver finito il giro tre secondi netti prima di lui, il campioncino della Val Germanasca, come c’è scritto su quell’articolo di giornale appeso in cucina.

Mi spoglio in fretta, infilo i pantaloni. Pungono e devo fare tre giri di spago per non farli cadere. Tra brividi e pelle d’oca, indosso il reggiseno e la maglia che ho lasciato nascoste ieri sera, sotto il rastrello. Il maglioncino con la carta di giornale arrotolata dentro, me lo lego in vita. Le calze vecchie di papà e le scarpe da lavoro, sono pronta.

Devo far presto, devo sbrigarmi: ho poco più di un’ora e mezza a disposizione, il giro del Colle dell’Infernetto non è una passeggiata.

Apro con cautela la porta, cammino piano per l’aia spingendo la Gran Dama dal manubrio.

Controllo il cronometro a cipolla di papà, regalo di un paracadutista inglese ospite per mesi nel granaio, lo fisso per bene al passante in vita e allo spago, lo faccio partire, lo metto in tasca, al sicuro. E sono in strada.

Le gambe cominciano a girare, lente. I polpacci s’induriscono all’istante per l’improvvisa fatica. Ma non li ascolto, tanto so già che, passati i primi dieci minuti, spingeranno come due pistoncini arrabbiati. Parte la salita. Il cuore inizia ad accelerare, il fiato ad aumentare. Dopo poco, prendo il ritmo e il corpo va da solo. I muscoli sono caldi, la pedalata è fluida, il respiro regolare. Ripercorro, come sempre in questi giorni, l’incredibile proposta che mi ha fatto la scorsa settimana il signor Vanzelli all’uscita del cotonificio, mentre stavo inforcando la mia Bianchina per tornare a casa. So le battute a memoria, come un’attrice, tante volte mi sono ripetuta in testa il discorso, per paura che non fosse vero, che fosse tutto un sogno.

“Betta, vieni qui”.

“Signor Vanzelli, ho fretta debbo andare ad aiutare a raccogliere le patate.”

“Ti rubo solo pochi minuti”. E poi, abbassando il tono di voce. “Ti ho tenuto d’occhio questi mesi, ho guardato le tue gambe.”

Le mie gambe girano, si flettono e si tendono, le ginocchia salgono e scendono. Ecco la prima rampa, che s’infila nel bosco. Spingi Betta, coraggio, non pensare a quanto è lunga e faticosa.

Mi ero allontanata di un passo. Ma lui mi aveva presa per un gomito e tirata a sé, continuando a parlare quasi sottovoce.

“Vieni qui, ma cosa stai pensando? Son mica un maniaco! Ma so riconoscere quando le gambe spingono e bene. Vorrei metter su una squadra femminile alla Veloce. La Tre Risotti ci sta, è già d’accordo. La prima squadra femminile d’Italia. Sto cercando delle atlete e so che quest’estate hai dato tre secondi al Bepi nel giro della rocca.“

“Ma si correrebbe in pantaloncini corti?”

Che risposta, che vergogna. Arrivano i tornanti, ce ne sono otto, la boscaglia inizia a diradarsi, c’è odore di pino. Non alzare lo sguardo, la strada fa più paura a vedersi che a farsi. Guarda giù, guarda l’asfalto e pedala.

“Ma certo, sennò come fai a pedalare per bene in estate? Allora, ti piacerebbe?”

“Sì” mi era uscito un sussurro, non l’avevo mai considerato, ma sì, adesso che qualcuno me lo stava proponendo non avevo bisogno di tempo per pensarci.

Arrivano i primi raggi di sole, li sento. Il sudore inizia a scendere. Mi piace quando le gocce cadono dalla fronte e le sento sulle mani, la fatica mi è compagna. Tiro su la testa, vedo la meta vicina, mi alzo in piedi, ora devo spingere.

“Sì” avevo risposto allora più decisa “certo che mi piacerebbe, ma non penso che piacerebbe a mamma e papà.”

“Di quello non ti preoccupare, ci vado a parlare io, il tuo babbo lo conosco bene. Devo ancora chiederlo alle altre ragazze e poi vengo a casa tua. Siamo d’accordo?”

Sono d’accordo e da allora mi alleno tutti i giorni. Vanzelli non si è ancora fatto vivo e io sono qui, in punta al colle. Mi fermo, bevo con avidità e mi mangio una zolletta di zucchero. C’è una pace assoluta, gli usignoli chiacchierano, il sole, sebbene tiepido, mi scalda la pelle sudata. Chiudo gli occhi e per un attimo mi pare di essere sulla montagna più alta del mondo, arrivata. Poi guardo il cronometro, mi rimane mezz’ora per scendere, ce la dovrei fare. Piazzo il foglio di giornale sulla pancia, mi vesto e mi butto giù. Non c’è più spazio per i pensieri, per Vanzelli, per Bepi. Sono un tutt’uno con la mia bicicletta, concentrata a non sbagliar traiettoria, attenta al pietrisco, alzo il ginocchio e piego in curva. Sono una freccia lanciata a folle velocità. Volo. Sono libera.

Arrivando in cascina, mi viene in mente la poesia studiata in terza media. Solo adesso mi sembra di capirla, adesso che devo riporre la Gran Dama e prepararmi per andare a lavorare.

“Sembrano uccelli

la gente in bicicletta.

Appena il piede

tocca ancora la terra

torna in mente

quello che avevamo voluto scordare.”

Passo da dietro, per non farmi vedere. La porta del capanno è socchiusa, mi sembrava di averla chiusa bene. Ho i sensi all’erta, cerco di spiare dallo spiraglio la presenza di qualcuno.

“Vieni dentro cretina!”

D’improvviso la porta si spalanca, una mano forte mi prende per i capelli e mi trascina dentro, bicicletta compresa.

“Rimettila subito a posto. Dove sei andata a quest’ora? E chi ti ha dato il permesso di toccarla?”

Bepi sembra più alto di venti centimetri. A gambe nude, troneggia in mezzo agli attrezzi e non l’ho mai visto così arrabbiato. Decido che la miglior strategia è l’attacco. Non ho paura.

“Colle dell’Infernetto.”

“Cosa?”

“Colle dell’Infernetto. Mi hai chiesto dove sono andata.”

“E cosa sei andata a fare? Ad esercitarti? Ti ho visto sai che parlavi con Vanzelli e che ti sei scritta sul quello stupido quaderno i miei allenamenti. E comunque non m’importa! Chi ti ha dato il permesso? Questa biciletta è mia, soltanto mia. Tu non puoi usarla, non sei capace.”

“Tu in quanto lo fai? Ci ho messo un’ora e ventisette minuti.”

Bepi vacilla, ma s’incazza ancora di più.

“Smettila, il ciclismo non è roba da donne. Le femmine devono stare in cucina, ai fornelli, a fare la calzetta, non in giro a pedalare, magari anche a gambe nude. Non ci provare mai più o te ne ficco così tante che non ti potrai sedere sulla sedia per un mese, altro che sul sellino.”

Capisco di essere salva, non ha intenzione di dirlo a nessuno per ora.

“Bepi, cosa ti cambia, la uso senza darti fastidio.”

“Togliti i miei pantaloni. Se proprio vuoi renderti utile con la mia bici, l’unica cosa che puoi fare è pulirla al rientro dai miei allenamenti. Puoi iniziare da adesso, con questa.”

Mi getta addosso la mia camicia da notte.

“Stai scherzando? Poi sarà tutta sporca d’olio e non faccio in tempo a lavarla per stasera. Di notte fa ancora freddo.”

“Anche io ho dovuto attraversare l’aia in mutande. Fallo subito o vado dritto di filato da mamma a raccontarle cosa fai la mattina prima di andare a lavorare.”

“Cosa fai la mattina prima di andare a lavorare? E cosa fate voi due a quest’ora, nel capanno, urlando come degli ossessi? Bepi, mettiti i pantaloni e tu Betta vestiti. Vi aspetto in cucina, subito.”

La mamma. Sono fregata.

Alla sera, rientro dal lavoro stanca e turbata. Mamma stamattina ha ascoltato la storia di Bepi senza fare un commento, né una scenata. L’infame mi teneva d’occhio da un po’, sapeva che gli rubavo i pantaloni la mattina e che prendevo la Gran Dama per andare ad allenarmi. Le ha pure detto che mi ha visto con Vanzelli, “chissà cosa le ha messo in testa” ha concluso, meschino. Mamma è stata in silenzio, guardandomi come se avesse scoperto che sono la prostituta meglio pagata del bordello di Varese. Non ha voluto lasciarmi parlare, non ho potuto dire nulla. Ma tanto non so se ce l’avrei fatta, io con le parole non ci so fare, come si può raccontare la bellezza di pedalare forte, cronometrarsi, vedere i miglioramenti, sentirsi l’aria in faccia? Non ha detto nulla a papà, per lo meno non in mia presenza.

E così sono uscita con un macigno grosso come una casa sul cuore, meglio sarebbe stata una sfuriata o qualche schiaffone.

Da lontano, intravedo nell’aia la macchina del dottore. Mi preoccupo ancora di più, sta a vedere che, per il dispiacere, le ho fatto venire un attacco di cuore. Inizio a correre verso a casa, con le gambe dure da stamattina, angosciata. Spalanco la porta e trovo la mamma e il dottore seduti tranquillamente al tavolo, stanno prendendo un caffè. Il vestito nero di sartoria e la camicia bianca stonano nella nostra cucina di legno grezzo e spesso, costruita e dipinta in verdino dal nonno. Si girano a guardarmi, cala il silenzio.

“Buonasera Betta”. La voce baritonale incute timore, così come la sua figura. Dritto come un fuso, nonostante i suoi settant’anni passati, in paese è lui la vera autorità.

Capo dei partigiani, ha aiutato mezza vallata a sopravvivere sotto il Duce, non come quel vigliacco del sindaco, scappato in città. E le sue prediche, a fine visita, sembrano diretta emanazione della CEI, altro che il parroco ragazzino appena arrivato, che hanno visto suonare la chitarra. Solo papà, i cui lunghi silenzi mascherano opinioni nette e taglienti, una volta osò criticarlo: “Quando i capelli sono tutti bianchi, è ora di far largo ai giovani” gli disse. Da quel giorno il dottore non gli parla più.

“Betta, il dottore è venuto qui per ascoltarti il cuore, non vorrei che lo sforzo di stamattina ti avesse fatto qualche danno.” Le prime parole che la mamma mi rivolge di oggi, seppur senza guardarmi in faccia.

“Non ho nulla che non va al cuore.” protesto.

“Signorina Elisabetta, il cuore è una macchina portentosa, ma delicata, soprattutto quello delle donne. Uno sforzo come quello di stamattina potrebbe aver rovinato le valvole mitriali e tu non lo puoi sentire.” E quando il dottore parla, con questi paroloni, nessuno osa contraddirlo.

A fine visita, si chiude con la mamma in cucina: io passo da fuori e origlio.

“Allora, come sta?”

Il dottore alza la testa dalla borsa di pelle dei dottori, poggiata a centro tavola.

“Signora, non mi faccia perder tempo, il cuore di sua figlia è a posto ovviamente. A lei ho invece detto che il flusso ematico produce un rumore anomalo durante l’azione di pompaggio, con un’intensità e frequenza non fisiologica.”

Mamma riprende a respirare, non si sa mai cosa possono sentire questi medici con lo stetoscopio.

“E quindi?” chiede mia madre, piccina sulla sedia.

“In parole povere, che ha un soffio al cuore, che non può fare sforzi”

“Grazie, sa non posso mica proibirle di andare in bicicletta senza un motivo.”

Quello raddrizza ancor di più la schiena, se possibile, come se l’avessero frustato sul sedere. La bocca si piega sdegnosa.

“Senza motivo?” la voce si alza di un’ottava e l’indice parte, senza controllo, rivolto al naso di mia madre. Arriva la predica.

“Ma lei lo sa che agli inizi del Novecento una corrente di pensiero molto influente nella medicina stabilì che il ciclismo è altamente dannoso per il delicato organismo della donna? Il seno, l’utero e le ovaie non sono certo adatte a tutti quei salti e vibrazioni. La fatica è la stessa degli uomini, la sete pure. Come potrebbero le donne resistere? Questa teoria, anche se un po’ datata, non è mai stata messa in discussione. Tralasciando il fatto che — e questo è un mio pensiero — pedalare per ora stando su un sellino duro e dalla forma fallica, come quello della bicicletta da corsa, porta sicuramente all’eccitazione sessuale continua e quindi ad una sorta di masturbazione, per di più femminile, roba da matti! E che turbamento generale provocherebbe vedere donne a gambe nude, come uomini? Uno scandalo, ecco cos’è quest’idea balzana di metter su una squadra di ciclismo femminile.”

Mamma arrossisce non so se per i riferimenti al sesso oppure perché non ha di nuovo capito un granché, come me. Vorrei vederlo io il dottore dopo cinquanta chilometri di salita, se riesce anche solo a montare sul letto, altro che.

“E poi, il ciclismo ingrossa i polpacci, non è roba da donne!” conclude la mamma, in confusione totale.

La cena scorre calma, troppo serena per stare tranquilla. I miei fratelli e le mie sorelle mi guardano di sottecchi: Bepi, ancora fuori casa per gli allenamenti, non ha spifferato nulla. Sanno che è successo qualcosa di grave, nulla più.

Finito di mettere a posto, vengo bloccata dalla mamma in cucina, seduta al tavolo insieme a papà, silenzioso e impenetrabile, la faccia larga cotta dal sole, un sottile filo d’erba come bocca, un nasone a patata e due nocciole piccole e tonde, sotto le sopracciglia cispose. Di solito le faccende dei figli le cura lei, lui interviene solo nei casi più gravi. Sono molto stanca, solo l’adrenalina dello scontro mi sostiene. Non possono proibirmi di andare in bicicletta con una menzogna, ma non me la sento di affrontare mamma in modo così diretto, devo resistere fino a quando Vanzelli verrà a convincere i miei genitori.

“Siediti” mi ordina papà.

Il tavolaccio di mezzo, loro due da una parte e io, sola, dall’altra.

La mamma mi racconta la bugia del soffio al cuore. Forse, in queste ore, si è davvero convinta che io sia in punto di morte, perché sembra preoccupata per la mia salute. Grazie a Dio, tralascia il discorso di Sodoma e Gomorra del dottore, le gambe nude e l’eccitazione sessuale causata dal ciclismo. Non avrei retto all’imbarazzo.

Resto a testa china e non rispondo. Voglio solo che finisca tutto in fretta.

Mamma continua descrivendomi la punizione che mi spetta per aver preso di nascosto la bici di Bepi, il cronometro di papà ed essere uscita di casa senza permesso.

Mi agito sulla sedia, sto scomoda. Anche questa volta il silenzio è la mia unica replica.

La mamma riprende con la tiritera, ma papà alza un braccio, zittendola.

Ecco, ora ho paura.

“Non hai nulla da dire?” mi chiede.

Al suono della sua voce sobbalzo. Mi verrebbe da raccontargli tutto, di Vanzelli, di come mi sento quando inforco la Gran Dama, dei miei tempi al cronometro.

“Ho il permesso di alzarmi?” rispondo.

“Ti ho chiesto se non hai nulla da dire” la voce si fa severa.

“No”. Stringo forte con le mani la sedia, per farmi coraggio.

“Allora puoi andare”.

La mamma borbotta, non è soddisfatta di come sono andate le cose, papà la zittisce di nuovo.

Vorrei alzarmi velocemente, ma i muscoli freddi e rattrappiti dallo sforzo mattutino, non me lo consentono.

“Il cronometro stamattina segnava un’ora e ventisette minuti. È il tempo che ci hai messo a fare il giro del Colle?” mi chiede papà mentre sto uscendo.

“Si” rispondo in un sussurro. Lo guardo, tento di capire il senso della domanda, ma il suo viso non trasuda espressioni, né emozioni. Mi salgono le lacrime agli occhi, vado via prima che mi vedano piangere. Mentre salgo le scale li sento parlare, mamma sicuramente gli starà raccontando la storia per intero. M’infilo nel letto, sento ancora la sua voce che parla e parla. E poi, finalmente, il sonno mi accoglie, consolandomi. Domani mattina, se non altro, potrò dormire fino alle sei e mezza.

Il gallo canta, sento alzarsi tutta la famiglia: io rimango a letto e non rispondo alle mie sorelle. Sono tutti giù a far colazione adesso, ma io non mi muovo. Si sta facendo tardi per andare al lavoro.

Sento mamma che sale le scale, mi giro dall’altra parte, per non guardarla in viso.

“Betta, cos’hai, stai male?”

“Se non posso correre per problemi di cuore non posso neanche andare al lavoro”. Mi sono studiata questa risposta tutta la sera ieri e la sparo a raffica, come una mitragliata. Ho dichiarato guerra, lo so, ma voglio diventare una ciclista. Pazienza mamma, le sue preoccupazioni, il dolore che le do e lo scandalo. Al diavolo Bepi, che si crede tanto superiore solo perché è maschio. Secondo me si può fare: essere fidanzate, mogli, mamme, casalinghe, operaie. E atlete.

Mamma si alza, non sa che rispondere, sconfitta dalla sua stessa bugia.

Rimango a letto a lungo, sento tutti uscire al lavoro e la casa svuotarsi. Poi, un passo pesante, sulle scale. Papà. Si ferma in piedi, di fianco al mio letto.

“Alzati Betta.”

Io tremo, ma trovo il coraggio che mi serve.

“No papà, se non posso correre per problemi di cuore non posso neanche andare al lavoro.”

“Tu non hai problemi di cuore. Lo sai quanto ci mettevo io da giovane?”

Ma che domande mi fa? Non mi giro, tengo gli occhi chiusi, non mi fido.

“A far che?”

“Il Colle dell’Infernetto. Un’ora e trenta minuti. E adesso alzati, andiamo ad allenarci.”

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